In una notte color nerofumo, trent'anni fa, non troppo distante dalla Mole Antonelliana, in una culla, alcuni vagiti tentavano di raggiungere sorde orecchie. Il silenzio avvolgeva soltanto quella culla, mentre si sentiva intorno a essa echeggiare il traffico di una Torino che si stava preparando a riposare in una delle sue tante notti invernali. La nebbiolina caratteristica del più urbano dei cieli subalpini era scesa fra un misto di monossido di carbonio e biossido di azoto.
I comignoli dei palazzi settecenteschi e ottocenteschi di via Po s'accingevano a spegnersi per poter sbuffare nuovamente di buon mattino. Piazza Vittorio, da qualche secolo, già si abbassava a cominciare dalla fine di via Po per preparare lo stagliarsi solenne della Gran Madre. Gli antichi lampioni della piazza accesi a festa rendevano suggestive le luci azzurrate e rosate che ammiccavano a intermittenza dietro una bruma decadente sulla nera collina.
Piazza Castello piena di luci e colori, che tempestavano il nero di fondo del cielo brumato, riscaldava quella notte con la maestà imperiosa di Palazzo Madama che rifletteva fra le ombre il suo baroccheggiare. La pietra calcarea, le lastre severe dei pavimenti cittadini annunciavano il bisogno di un momento di solida stabilità. E, poi, i capolavori del Guarini, San Lorenzo, la cupola del Duomo, Palazzo Carignano; i piani urbanistici di Amedeo di Castellamonte; le altre architetture dello Juvarra: la Palazzina di Caccia di Stupinigi e Superga che pareva un lumino sulla collina. E, ancora, il Faro della Maddalena con l'epigrafe di D'Annunzio, la casa di Nietzsche in Piazza Carlo Alberto, quella di Gramsci in piazza Carlina, quella di Tasso in Palazzo d'Este nella rientranza di via Edigi, quella di Rousseau nell'alberata piazzetta IV Marzo nel cuore della Torino medievale, la chiesa dello Spirito Santo, in cui proprio Rousseau si convertì al cattolicesimo...
E, in successione, la casa di Alfieri e quella di Lagrange nelle vie a loro dedicate, la casa in cui Mameli compose l'inno nazionale in via Barbaroux, l'abitazione in cui dimorò Puccini in via S. Agostino, l'Università in cui si laureò Erasmo da Rotterdam, la fetta di polenta dell'Antonelli in cui visse Tommaseo; Torino, la città amata e ritratta da De Chirico, che Nietzsche paragonava ai quadri di Lorrain e Poussin; la città di Pavese, di Primo Levi, di Fruttero e Lucentini, del Caffè Elena, del Porto di Savona, del Caffè Platti, del Caffè Mulassano ove ebbe origini il tramezzino, del Caffè Torino in piazza San Carlo...
Qui aleggiava una terrea aria di mistero che avvolgeva i ponti sul vecchio Eridano. Il Monte dei Cappuccini copriva con punte di segreti e di silenzi gli antri incanalati dei portici del convento; la nera statua della Madonna su quella collina impressionava qualche bambino. I regali portici di via Po e di piazza Vittorio emanavano luce sulla grigia strada; ancora si poteva scoprire negli infiniti labirinti dei cortili di Torino una meravigliosa città nascosta con fregi, busti, statue, decorazioni camminando sul ciottolato originale.
Nelle soffitte di piazza Vittorio le luci accendevano un po' di tepore nel clima rigido della più fredda delle stagioni.
Quella notte era santa.
Cresceva la luna.
Dalla culla i vagiti diventavano sempre… più… percepibili.
"Desy, Desy, non piangere!" disse una madre a una bambina che ancora non poteva capire.
Desy continuava a piangere senza darsi pace.
Desy era figlia di Serena che abitava in una soffitta in piazza Vittorio; ella fu violentata da un giovane che, dopo qualche mese, morì per overdose da eroina. Serena diede alla luce Desy in quella soffitta poco prima del Santo Natale. Quella notte di gioia seguì di nove mesi una notte di tormenti causati dalla violenza subita, resa ancor più insopportabile dall'abbandono e dalla morte del giovane ragazzo padre, il padre di Desy…
Serena, donna ferma e decisa, ridotta a quella vita dai disagi d'una società che l'aveva emarginata, poté vedere la luce della speranza in Desy. Serena, in realtà, non era povera ma aveva rinunciato agli agi della facile ricchezza della sua famiglia di provenienza.
Desy crebbe nell'alveo di un affetto monco, in un clima di sofferenza. Iniziò a pronunciare la sua prima parola proprio in una notte fonda, scorgendo dalla finestra della soffitta la luce dirimpettaia dell'altro lato della piazza. La indicò e disse: "Lume, mamma!". Sì, la mamma le aveva presto insegnato a vedere i lumini presenti in quella modesta ma calda dimora, tanto che Desy ora li poteva vedere anche fuori con entusiasmo e meraviglia. Desy era solo un vezzeggiativo. Il suo vero nome era Ardesia.
A sei anni, vissuti fra i più grandi sacrifici, la sua aria era malinconica e triste e i suoi vestiti erano scuri e non appariscenti; Ardesia iniziò a frequentare la scuola: presto s'accorse d'essere una bambina isolata da tutti e per questo pianse molto; dovette persino cambiare una classe perché non riusciva a sopportare le umiliazioni infertele da quei compagni.
In Ardesia accrebbe lentamente il desiderio di relazionarsi con gli altri e imparò anche a farlo con una certa fatica. Riuscì nel suo intento perché era una ragazza curiosa e molto intelligente. Amava guardare dalla sua finestra il brulicare composto della vita cittadina in piazza Vittorio, così come amava leggere le più intricate vicende umane narrate nei più celebri romanzi.
Ardesia frequentò il liceo classico conseguendo il diploma col massimo dei voti. Sempre... un po' isolata dagli altri, nell'eremo della sua soffitta, Ardesia desiderava qualcosa con ardore, ma non sapeva cosa... questo era per lei un mistero che sempre... la portò a piangere senza saper perché. Ardesia non trovava risposta ai suoi perché, che aumentavano vieppiù ogni giorno e ogni notte. Con sua madre Serena, Ardesia parlava molto ma v'erano argomenti intoccabili e il silenzio allora diventava come di pietra.
La prima volta nella quale Ardesia si recò al Museo Egizio fu colpita dalle rappresentazioni di Amenofi IV che ella trovava così eloquenti e loquaci nel loro silenzio tombale.
Ardesia era appassionata di storia egizia.
Ardesia era appassionata di storia egizia.
La personalità di Amenofi IV la colpì già durante i suoi studi scolastici. Ardesia amava profondamente il faraone come fosse la sua Nefertiti; lo amava come amava Torino, la sua Torino, città misteriosa ed enigmatica. Un demone sconosciuto s'era impossessato di Torino come di Ardesia, i cui pensieri più riposti erano da lui ossessionati; Ardesia amava la storia del Regno Sabaudo, aveva una grande ammirazione per Vittorio Amedeo II; ogni evento rimaneva impresso nella di lei fervida mente come un arroventato marchio, come il nero tatuaggio di un'araldica. Spesse volte ella si recava a visitare i Musei della sua città; uno di quelli che l'affascinava era certamente il Museo di Pietro Micca con le gallerie sotterranee. Ardesia era figlia della città del mistero, figlia della città in cui fu professore il Lombroso; Ardesia era essenzialmente figlia del mistero: di chi era figlia Ardesia? Questo era il suo vero grande tormento.
La giovane Ardesia s'aggirava affannosamente da un museo all'altro per rinvenire una risposta; era più tranquilla soltanto quando correva alla ricerca... E currenti calamo scriveva, scriveva scriveva... Divenne, infatti, una competente ricercatrice iniversitaria dopo essersi laureata in Lettere con indirizzo artistico. Amante della pittura, Ardesia conosceva l'arte presente a Torino come le sue oscure tasche; ella sapeva dove e come potere ammirare i pittori fiamminghi nella sua città.
Rimase impresso su Ardesia, proprio come su una pietra nera, il Ritratto d'Uomo di Antonello da Messina conservato nel Museo d'Arte antica di Torino:
quello sguardo misterioso e penetrante, quasi inquietante, turbò alcune delle notti di Ardesia; pareva muoversi da un momento all'altro e pronunciare un cenno arcano. La colpì lo stesso Autoritratto di Antonello da Messina, visto a Londra, quando Ardesia ottenne una borsa di studio per completare la sua specializzazione.
In questi due dipinti del pittore, anche il rubizzo colore dei vestiti e dei volti infondeva nell'animo inquieto di Ardesia, impietrito dal dolore, il tepore dell'intimità. Quei colori parevano ardenti carboni rosseggianti sulla brace.
Sempre... a Londra, Ardesia aveva potuto ammirare anche L'Uomo dal Turbante di Jan van Eyck: da quel fiammingo ella rimase stregata: il segreto messaggio che avvolgeva già il pittore di quel dipinto traspirava dalla tela. Ardesia si sentiva sospinta verso un'irrefrenabile ricerca... di cosa?
Quasi come se si illudesse di ricercare il sacro Graal; quasi come se dovesse proustianamente rinvenire il tempo perduto, Ardesia s'aggirava come se si spostasse in una missione segreta, inviata soltanto dal suo cuore inquieto. La voglia di trovare un angolo nel quale assaporare il gusto della tranquillità... questo per Ardesia era l'unico scopo della sua vita. Fino ad allora nulla le aveva dato pace. Perciò Arrdesia si sentiva sospinta naturalmente alla ricerca della pace del cuore. Soprattutto Serena avrebbe voluto dare a sua figlia un po' di pace, ma non faceva altro che rinfocolare in Ardesia la voglia di scoprire, di sapere, di capire.
Ardesia era diventata importante nell'intellighentia torinese e ottenne, presto, la cattedra di Storia della Pittura Fiamminga all'Università degli Studi di Torino.
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