romanzo di Ada Pirocolpo (1994)


"Il tempo del mondo è un bambino che gioca, che mette qua e là le pedine; il regno del bambino"

ERACLITO, Frammento 52 (Diels)

28/07/11

Capitolo 1 - SILVESTRO, L'ACERBO

Quei limoni, visti sulla bancarella di un fruttivendolo durante una passeggiata, rimasero nella sua memoria.
Eppure, quasi volesse afferrarli, il prenderli non era la sua intenzione. Certamente il chiaro riflesso provocato dalla tersa giornata in quel giallo di per sé già vivo era destinato a illuminare altre passeggiate e non soltanto quelle di allora, ancora percorse nel passeggino.

Altri erano i colori che proprio allora si fissavano nella sua mente: dopo aver visto la luce per un giorno intero, egli si trovava finalmente in quella sua culla, la cui rete di protezione filtrava persone e oggetti presenti nella stanza, impressionandolo e provocando la formazione di rappresentazioni che - non appena egli chiudeva gli occhietti - continuavano a dilettare la sua fantasia, con scacchiere a quadretti rossi e blu.


 L'esperienza dell'arcobaleno non tardò ad affacciarsi nell'azzurro della sua tranquillità.
Sorridente, mai infastidito nella sua paciosità, rispondeva con piacere a ogni richiamo sonoro sia pur sottile, e con gli occhi già comunicava quasi con maturità.

Un giorno si trovò - senza capire come - a rispondere a chi lo chiamava: "Ruben, Ruben!". In realtà, per molto tempo egli aveva capito "lumen, lumen" ogni qualvolta era stato chiamato. Venne anche il giorno in cui cominciò a distinguere i suoni con grande precisione. E imparò a pronunciare non soltanto il suo nome ma anche quello dei suoi interlocutori. L'articolazione e la chiarezza percettiva, sia della vista sia dell'udito, sempre lo contraddistinsero. I volti più allegri, le espressioni più simpatiche, i sorrisi più gioiosi divennero così familiari a Ruben che presto, senza nulla cercare, se li ritrovò attorno.

Il primo amico, un certo Eddy,  fu imposto a Ruben dalla situazione contingente: abitava proprio dirimpetto a lui. Non a lungo essi si frequentarono ma ebbero  a ritrovarsi in diverse occasioni volute dai genitori.

Arrivò il tempo della scuola anche per Ruben.
I giardini coloravano i suoi pomeriggi trascorsi ormai in bicicletta. quei sereni sprazzi intrisi di fresco odore d'erba appena tagliata colorarono così l'incontro con un nuovo mondo, ove ormai poteva iniziare un dialogo.
In una sera d'ottobre inoltrato, quasi verso le sette, Ruben si sentì chiamare, all'uscita della scuola da un nuovo compagno molto vivace, col quale s'intrattenne a giocare a nascondino, al di qua della cancellata, tra il fresco e aromatico profumo di giganteschi pini. Di nobile famiglia, tuttavia il rampollo emanava un selvatico senso di ribellione, molto incline alla trasgressione ma ricoperto di perbenismo. La linfa vitale, che caratterizzò il di lui primo incontro con Ruben, era destinata a scorrere per oltre dieci anni.
"Se vuoi, giocheremo a nascondino" rispose Ruben al nuovo amico, il cui nome era Silvestro.
"Forza, facciamo la conta!".


La dea bendata, seppur scomodata per poca roba, scelse Ruben come suo diletto: idealmente bendato, anche Ruben, iniziò a contare, mentre Silvestro correva come una lepre verso gli arbusti, dietro gli abeti. La scena si ripeté almeno una dozzina di volte. Esausti di correre e di nascondersi, un po' sporcati e un po' profumati dall'erba tagliata del giardino, Ruben e Silvestro tornarono con le madri alle rispettive case.

Gli anni trascorsero veloci e i contatti fra Silvestro e Ruben furono sempre più frequenti. Infatti, essendo figlio unico, Silvestro aveva un irrefrenabile bisogno di socializzare.
Lunghi pomeriggi i ragazzi trascorsero a svolgere i compiti scolastici nella stanza di Silvestro: era Ruben a essere invitato sempre nella grande dimora dell'amico. Soli, impiegavano la più parte del loro tempo nel gioco e nello scherzo;  e una manciata di minuti dedicavano al lavoro scolastico. Talvolta Silvestro, sempre affamato di compagnia, chiedeva anche alla madre se l'amico  Ruben  poteva pernottare da loro. Non rari questi momenti si profilarono, si protrassero, si susseguirono negli anni.
"Adesso ti impicco!" diceva Silvestro.
"Noo! Non farlo! perché le conseguenze potrebbero turbarti".
Simili risposte inventava Ruben, con la sua creatività accesa e stimolata dalla situazione. Ogni volta che essi giocavano alla lotta, si ripeteva questo rituale: era comunque Silvestro a prendere l'iniziativa di dominare sull'amico, sfogando la sua aggressività accumulata in dosi cospicue. Una volta, su una poltrona settecentesca, Silvestro premette talmente sul collo di Ruben che questi parve diventare verde. Eppure, come se nulla fosse, ogni volta entrambi ritornavano a giocare tranquilli. Capitò in una sera estiva che Ruben fu legato alla poltrona da Silvestro, libero così di sfogare il suo tasso sfrenato di volontà di dominio fino a ricoprire l'amico di marmellata all'arancia e dentifricio alla menta piperita.
"Adesso, dimmi 'mio signore'!" gli chiedeva Silvestro;
"Signor Silvestro" rispondeva Ruben.
"'Mio signore' ho detto".
E iniziava a discendere il dentifricio sulla chioma di Ruben, esausto, che esclamava "Mio signore" ma pensava tra sé: ""è l'unico modo in cui Silvestro possa ottenere una signoria". Ottenuto il suo scopo, Silvestro si divertiva molto accontendandosi proprio di poco: imponeva a Ruben di dire, anzi di pensare, ciò che invece egli stesso pensava. Silvestro era un figlio del comando, ma un orfano del potere; quel potere col quale mai aveva potuto avere confidenza ma che aveva conosciuto in famiglia, tra l'allegria e la disperazione. Ruben sapeva - per inclinazione naturale e per formazione - che assecondare quegli istinti sarebbe stata la migliore scelta per aiutare Silvestro.  Ruben coltivava con cura, nel profondo del suo cuore, un sottile disprezzo nei confronti dell'amico. Quando da questi era invitato a casa, egli non sopportava di dover vedere la stessa scena ripetersi: Silvestro gli apriva i cassetti personali e giocava con i suoi oggetti, talora fino a romperli, nonostante il secco veto, un po' afono e insicuro, che Ruben pronunciava ma che Silvestro all'istante rimuoveva. Eppure, negli anni, fecondavano a dismisura le loro frequentazioni.

Ormai già tredicenne, nella sua Firenze che tanto amava, Ruben cominciava a conoscere le prime amiche. Litigiosa e sgarbata fu, nella sua prima comparsa, Scozia. Ruben ricevette presto da lei un doloroso calcio nello stinco sinistro, debitamente restituito alla stizzosa creditrice.
Per qualche anno Scozia e Ruben si ignorarono completamente, pur frequentando la stessa riunione settimanale al Circolo dei Debuttanti. Tuttavia, in seguito, seppero anche comunicare piacevolmente, forse addomesticati dalla formazione impartita nel Circolo. L'istruttrice era la signora Aminta de Mughetti, tanto rigorosa quanto ingenua all'apparenza.
Partecipava al salotto del Circolo, con meno frequenza, anche la contessina Gelsomina, detta da Ruben 'la grigia' perché pretendeva un rispetto dovuto, per la verità, a una persona anziana; di simile agli anziani v'erano, invece, in lei solo i lineamenti. Costei cercava di catturare l'attenzione di Ruben in una morsa di sorrisi ampi e acuminati e ogni volta pareva che Ruben giocasse al rimpiattino per evitarla.
A un corso di tedesco, Ruben incontrò Billy, detto comunemente Blue Bill. Tra i due nacque subito un facile incastro: come i quadretti di un'ideale scacchiera, i due si incontrarono negli anni e vissero insieme momenti di creatività e di spensieratezza importanti. La loro specialità era il disegno con i pastelli a olio. Un giorno Blue Bill e Ruben si recarono a San Miniato al Monte: qui dipinsero la facciata rinascimentale della chiesa - l'uno - e - l'altro - il panorama di Firenze visto da quell'altezza. Reciprocamente dandosi le spalle e servendosene talora come schienale, entrambi ritrassero la dolcezza delle colline fiorentine, la quale mitigava la sequela dei loro tormentati sorsi d'infinito. Soprattutto Blue Bill era inquieto: pareva malinconico nel suo struggersi e ripiegarsi su se stesso. Chissà se si accorgeva talvolta della presenza di Ruben; pareva che  Blue Bill stagnasse in un atteggiamento egocentrico. Sempre Ruben doveva cercare Blue Bill - e guai se non lo cercava: Bill gli teneva poi il muso per giorni -, salvo che non si fosse già assestato uno schema di appuntamenti che diventava una routine. Era strano quanto, da un lato, Blue Bill fosse sregolato ed eccentrico e, dall'altro, ligio e professionale. Era questo un enigma che permetteva a Ruben di divertirsi nel ricercarne la soluzione.

Per la prima volta giunse anche il momento di dover trascorrere tre giorni nella tenuta fuori porta dei genitori di Silvestro, con Silvestro e, soprattutto, senza genitori. Infatti il Circolo dei Debuttanti aveva annullato in quell'anno la gita primaverile. Ruben non volle rinunziarvi e così accettò l'idea di una gita sostitutiva. Non era l'optimum per Ruben l'invito di Silvestro, rimasto solo a causa di una crociera che contemporaneamente soddisfò i piaceri turistici dei genitori. Tuttavia Ruben non disdegnò tale occasione di svago con Silvestro e si recarono insieme nella di lui sontuosa villa sopra la collina fiesolana. Qui, assistito da due camerieri e un cuoco che prestavano servizio fino alla sera per tornare l'indomani, Ruben passò tre giorni di svago con Silvestro, entusiasta all'idea di trascorrere quel tempo nell'otium. Ruben, allertato dai chiari segni presenti nei loro dialoghi, era invece inquieto temendo in ogni istante l'improvviso inizio del grande torneo delle Silvestriadi: in quel frangente, Silvestro diveniva imprevedibile e incontrollabile. Ormai sedicenne, egli era ancora immaturo.
Una sera i due amici decisero di inforcare le biciclette, un po' imprudentemente, per raggiungere il paese più vicino distante otto chilometri. La notte rese avventuroso quel viaggio, di per sé già faticoso, soprattutto al ritorno. Le strade buie celavano insidie e pericoli che la notte colorava obnubilando ogni percezione sensoriale, che in altri momenti sarebbe stata più amichevole, rendendo ogni cosa di una tetra e perturbante tonalità corvina.
Silvestro e Ruben finirono per suggestionarsi e furono avvolti da quel timore che il dio Pan, anche qui scomodato per poca roba, genera e infonde; i due amici  cominciarono a pedalare sulle loro biciclette, in modo ansioso, a velocità sempre maggiore, urlando quasi a simulare ululati, che sotto il biancore della luna ben s'intonavano.
Sì, la luna, seppure non piena, era l'unico spicchio di tranquillità per Ruben e Silvestro. Come due razzi, i due amici, tornati finalmente alla villa, spaventati come due bambini nel buio - gli stessi che giocarono, anni prima in una sera d'ottobre,  a nascondino - trovarono le fiaccole accese sui candelabri esterni all'ingresso della sontuosa magione. Quell'immagine li raggelò! Pensavano, enfatizzando la realtà, che le candele si fossero riaccese da sole; invece,  per la fretta, entrambi non s'erano curati di spegnerle. Silvestro, allarmato, d'istinto prese  in braccio Ruben che, goffo e imbranato, non reagiva. E, come la saetta di un fulmine scagliato da Zeus, corse dopo avere aperto la porta a una velocità impressionante, salì la scala in un baleno, portando sulle braccia l'amico che nel frattempo tradiva una risata; giunsero al piano superiore della villa. Ruben riconobbe che il vissuto era frutto della fantasia che, a intermittenza, si inserisce nella realtà. Soprattutto era Silvestro a non distinguere la fantasia dalla realtà... Lo stesso Ruben, tuttavia, non poteva nascondere la sua cronica insicurezza. Non appena un colpo di vento fece sbattere un'imposta e spense le candele all'ingresso, calò l'oscurità nel cortile prospiciente e sparì il rassicurante riflesso delle fiamme: anche Ruben non esitò così ad accelerare i suoi ritmi e a correre sotto le coperte per appoggiare il suo capo sul guanciale di quella poco ospitale alcova.
Per il resto del tempo, quei giorni furono pieni di noia per Ruben ma non per Silvestro che parlava, parlava, parlava... Ruben non riuscì mai a sfuggire alla sua faticosa prova di sopportazione passiva, immancabile nel suo intrattenersi con Silvestro.
L'ultima mattina del soggiorno, al suo risveglio, Ruben, che si era addormentato la notte nel letto accanto a quello di Silvestro, si trovò invece nel fienile vicino a un maiale. L'odore, il freddo, i grugniti resero conto a Ruben della sua nuova collocazione, ovviamente voluta da Silvestro. L'ambiente e il nuovo compagno suggerirono a Ruben un paragone e un'identificazione, che Silvestro non avrebbe gradito ma che proprio questi aveva, inconsciamente, realizzato; tale inconsapevolezza permise così a Ruben di comunicarli a Silvestro, con ironia del tutto incompresa: "mi sono addormentato e risvegliato con un maiale!".

Ruben smaniava dalla voglia di ritornare al più presto a Firenze ma era tranquillizzato dal fatto che ormai non mancavano che poche ore prima della partenza. L'orario del rientro fu fissato per le dieci del mattino. Non appena incontrò Silvestro, Ruben venne a sapere che invece sarebbero partiti nel primo pomeriggio, a causa di una visita inaspettata con relativo invito a pranzo nella villa.
Signori, ecco a voi la cugina e il cugino di Silvestro! Ruben forzò le sue mascelle e allargò le sue labbra fino a esibire un sorriso molto eloquente per chiunque, eccettuando Silvestro e i suoi parenti ospiti; questi continuava a divertirsi e a cercare corrispondenza in Ruben, il quale - invece - tra sé pensava solo a come anticipare la partenza.
Finito con molta lentezza il pranzo, alla presenza di un mastino napoletano che cercava di rosicchiare i piedi di Ruben, i quattro  commensali si trasferirono di stanza per la conversazione. L'intrattenimento fu condotto nel salotto buono e continuò per due ininterrotte ore, vissute da Ruben passivamente con aria sonnacchiosa. I toni acuti della cugina Pinotta e quelli da eunuco dell'acquisito  (giacché sposo di Pinotta) cugino Olivio scandirono un altalenante spettacolo paranoico, che per il sonno di Ruben fu, a un tratto, fatale. Stizziti e indispettiti, i cugini dovettero andarsene con rammarico, mentre Silvestro cercava parole di scuse. Ciò fu occasione di divertimento anche per Silvestro: divertirsi era l'unico suo scopo. A Ruben egli descrisse più volte quella situazione pur vissuta insieme in preda a una vorticosa logorrea, schiamazzando in risa sonore simili a cachinni. Fu così che presto arrivarono le sei della sera.
Ruben non riusciva a vedere oltre quello scenario che sembrava eterno; davanti alla sua presenza in quella tenuta, per lui ormai odiosa, si stagliava una sola prospettiva elevata a potenza e traslata all'infinito: Silvestro, Silvestro, Silvestro, Silvestro...
Alle sette della sera Ruben, secondo il suo pensiero, sarebbe tuttavia già dovuto arrivare a Firenze. Silvestro, con l'intelligenza della sua mimica, proprio durante questo consolatorio pensiero di Ruben, gli chiese: 
"Perché non ci fermiamo qui anche questa notte?".
"Nooo!" disse Ruben con una risolutezza che non aveva mai mostrato a Silvestro e aggiunse:
"Ho già avvisato del mio sicuro rientro per cena questa sera!".
Così Silvestro si rassegnò disarmato. Ruben non credeva alle sue orecchie e finalmente assunse un atteggiamento vittorioso, insolito per lui quando affiancava Silvestro.
Percorsero a cavallo  le colline sopra Firenze verso l'ora del tramonto che colorava la città di un vermiglio misterioso così affine alla sensibilità di Ruben, fiero e felice del tanto agognato ritorno.
Ruben godeva ora del suo ricongiungersi col mondo, del ritrovo della sua dignità, tanto insidiata da Silvestro e dalle sue invadenti abitudini. Il sole rosseggiava intensamente e Firenze si presentava sotto gli zoccoli dei cavalli con solenne magnificenza. Tutto era proporzionato al momento tranquillo vissuto da Ruben; lo stesso Silvestro gli pareva simpatico e la sua compagnia era quasi piacevole.
Come un fulmine a ciel sereno, Silvestro iniziò, in quel mentre, un discorso:
"Questa sera sarò solo" disse.
"Beato te" rispose Ruben.
"Tu hai voglia di stare da solo stasera?"
"No, certamente. Credo però che, a volte, ciò sia utile".
"Dici bene tu, che hai cinque fratelli e una sorella. Io invece non so neanche se cenerò stasera".
Ruben guardò allora verso l'orizzonte: il sole era ormai scomparso con tutto il suo rosso. Firenze si stava spegnendo per prepararsi alla notte e Ruben disse a Silvestro: "Perché non vieni da noi a cena stasera?". Contemporaneamente tuttavia pensò: "Speriamo che Silvestro consideri questo mio elegante invito solo una cortesia e non accetti".
Giunti sotto la casa di Ruben, Silvestro scese dal cavallo e bussò proprio lui al portale del palazzo della casa di Ruben, chiedendo: 
"Che mangiamo allora stasera?".


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